In cucina si apre una porta-finestra che dà su una veranda con infissi di legno bianco, listellati all’inglese. Al di là il giardino, con alberi di frutta: un arancio, un nespolo, un melo. La tettoia che protegge gli attrezzi è coperta da rampicanti e frequentata costantemente da merli, corvi e un gatto birbone. O meglio, una gatta; che gira in cerca di prede e che di notte approfitta della finestra aperta per addormentarsi sulla poltrona o per razziare qualcosa dimenticato in quella che ogni tanto viene utilizzata come dispensa. Fra i visitatori, talvolta arrivava un pettirosso. Si appoggiava sul ripiano, muoveva la testa e poi entrava per beccare qualcosa; un residuo del cibo per cani, qualche briciola di dolce, un frutto. Ogni tanto lo vedevo dalla cucina e stavo ad osservarlo, come fanno di solito i bimbi. Bastava un rumore, lo squillo del telefono, un ingresso di qualcuno nella stanza, e lui volava via. Ogni tanto trovavo qualche penna leggera e tracce di vita che infastidivano mia moglie.
Un pomeriggio, non molto tempo fa, mi capita di vederlo; si poggia sullo stipite, si gonfia e si
spiumaccia, salta sul bracciolo della poltrona e sta per volare a terra quando vedo, come un fulmine, la gatta che si fionda dentro, lo afferra con le zampe mentre ancora è in volo e se lo mette in bocca. In un attimo apro la porta e mi avvento sul felino ; lo agguanto prima che esca di nuovo sulla tettoia e riesco ad aprire la bocca ed estrarre quel corpicino rosato ed umido che ritenevo straziato dalle unghie e dai denti. Ma prendendolo in mano sento che trema; la testa non ciondola, ma sta raccolta dentro il collo ; gli occhi sono chiusi ma non vedo ferite. Il cuore batte ancora. Faccio del mio palmo una culla; accarezzo il pettirosso e mi avvicino al lavatoio, per inumidirgli il becco. Chiudo tutto e lo appoggio sulla poltrona. Mi viene in mente quando il criceto della figlia della mia più cara amica scappò dalla gabbia e si infilò in cantina, dove erano state piazzate delle tavolette di legno con la colla per catturare i topi. Il criceto, impaniato, era in condizioni miserevoli. La famiglia decretò la soppressione e Francesca (la padroncina) si mise a piangere disperatamente. Per farla breve, mi ci volle quasi una settimana, una pazienza infinita e liquidi speciali per liberarlo da quella colla infernale e riportarlo ad una parvenza di vita. Spelacchiato, ma vivo. Che cosa avrei potuto fare per l’uccellino, se avesse avuto le ossa rotte o magari un’ala? Non si muoveva, e decisi di lasciarlo lì. Quando tornai, non c’era più . Lo trovai impaurito sotto il lavatoio, nascosto nell’ombra. Con precauzione lo presi in mano e, accarezzandogli la testina, lo portai in giardino e lo appoggiai sul prato allontanandomi mentre lo tenevo d’occhio. Fece un po’ di saltelli, poi spiccò il volo per rifugiarsi in alto dentro la siepe. Insomma, stava bene. Un po’ frastornato, forse, ma capace ancora di usare le ali. Sulla poltrona in veranda di solito rimanevo a leggere il giornale e godermi i raggi del sole che entravano nel primo pomeriggio. Non avevo più visto il pettirosso, fino al giorno che si posò sul ripiano di travertino della finestra. E stavolta non ero invisibile in cucina. Non dirò bugie : non è mai saltato sulle mie ginocchia e non è venuto a posarsi sulla spalla; ma so che non aveva più paura di me e ci rispettavamo a vicenda. Lui mi lasciava leggere il giornale, si muoveva tra fuori e dentro alla ricerca di un cibo facile e io mi limitavo a guardare senza cercare di prenderlo. Comprai del mangime apposito, che disseminavo sulla finestra e nel vaso di una pianta, e mi divertivo ad osservarlo mentre beccava fermandosi ogni tanto sul bordo
della ciotola del cane per bagnarsi il becco. Non so quanto è durato; non succedeva sempre e non ero tutti i giorni in casa. Ma mi ha dato, ogni volta che ci penso, la sensazione di aver trovato un piccolo amico riconoscente. Un’anima grande non ha bisogno di troppo spazio per esprimersi, ed anche un pettirosso leggero può generare nostalgia e trasformarsi in un ricordo di dolcezza.