Il Pensiero unico

Ce l’hanno col pensiero unico, ma l’unico pensiero unico è il loro. Il cosiddetto pensiero unico che i tanti generali Vannacci contestano nasce in ambito economico negli anni Novanta, come una sorta di corollario della fine della Storia teorizzata da Francis Fukuyama. Se da una parte la vittoria della democrazia liberale sul comunismo sovietico aveva fatto credere fossimo arrivati a un capolinea del progresso, un punto di non ritorno rappresentato dalla piena realizzazione della globalizzazione, dall’altra il pensiero alla base del nuovo modello occidentale aveva affermato il valore della libertà innanzitutto economica, grazie alla quale anche le altre libertà (politiche e individuali) si sarebbero via via sempre più consolidate e rafforzate. Insomma, il grande sogno degli ultimi trent’anni del mondo, che però oggi appare decisamente in crisi.

Il pensiero unico, chiamato così in modo critico se non proprio dispregiativo da parte dei conservatori di ogni risma, è stata l’architettura di valori che ha permesso, ci piaccia oppure no, lo sviluppo economico globale dopo la fine della Guerra Fredda. Sconfitte le grandi ideologie e utopie novecentesche, intrinsecamente collettive, non restava che la piena espressione dell’individuo in tutte le sfere della vita, economica, religiosa, politica, sociale, sessuale. E con essa, l’effettiva concretizzazione dei principi di libertà e uguaglianza dei diritti che le Costituzioni liberali avevano sancito già da decenni o secoli, ma che avevano incontrato ostacoli nella cultura e nelle consuetudini radicate dei popoli. In altre parole, il cosiddetto pensiero unico è stato il motore di molte conquiste recenti a livello di diritti sociali e individuali, ma ancor di più di un cambio di mentalità in profondo divenire, eppure già avviato, improntato alla tolleranza. Concetti nati almeno tre o quattro secoli fa nella tradizione dei grandi pensatori liberali e illuministi, ma che ancora oggi stentano a inverarsi, perfino nelle grandi democrazie.

I conservatori e tradizionalisti, alcuni ancora ideologizzati, altri semplicemente spaventati dalla novità o minacciati nei loro privilegi, hanno sofferto e stanno soffrendo un cambiamento di pensiero e tradizioni così radicale e veloce. Per loro, il pensiero unico è soltanto l’espressione di un’élite vincitrice, quella capitalista, sugli interessi delle maggioranze. Vivono il pensiero unico come una costrizione quasi contro natura, un lavaggio del cervello globale, e ad esso contrappongono la nostalgia di un passato certamente più arretrato, ma almeno più rassicurante e stabile. La storia recente dei populismi, sia di destra che di sinistra, è intrecciata a doppio filo con queste posizioni. Lo chiamano pensiero unico non solo perché si tratta della vera spina dorsale, non sempre così dritta, della società occidentale, e in particolare del potere economico rappresentato dalle multinazionali e dalla loro cultura inclusiva, ma anche perché, secondo loro, è un pensiero che annulla le differenze, ad esempio quelle “razziali”, e appiattisce il mondo considerando tutti egualmente “normali”, quando invece la normalità sarebbe una questione di tradizioni, di usi e consuetudini inveterati, perfino di statistica: è normale quello che la maggioranza fa, con l’implicito derivato che ogni minoranza sia anormale.

Fin qui, la fotografia di questo scontro di civiltà, anzi di pensieri. Ma c’è una contraddizione in chi prova a tornare al Novecento, a fare rewind di una storia che di certo non è finita come pensava Fukuyama, e che anzi rischia di riportare in auge visioni del mondo che è bene rimangano sepolte nel cimitero delle ideologie sconfitte per sempre.

Non si accorgono, i reazionari contro il pensiero unico, che l’unico pensiero unico è il loro, cioè quello che vuole fermare le lancette dell’orologio a quando i treni arrivavano in orario, che alla diversità da loro tanto temuta e combattuta, e che rappresenta il vero segno distintivo del progresso post-contemporaneo al di là dei vari incidenti di percorso, contrappone la differenza immutabile, cioè il privilegio storico. Non capiscono, i tanti generali Vannacci dei nostri tempi, che la diversità include, la differenza esclude: e loro difendono la seconda, mentre avversano la prima. Fingono di essere assediati dal politicamente corretto, solo perché parla il linguaggio del rispetto degli altri, ma non sono riusciti a trovare altro sbocco culturale per il politicamente scorretto che non sia il linguaggio del disprezzo o il diritto all’odio. Contro il pensiero unico propugnano quello che si fatica a chiamare perfino pensiero, ma in realtà è solo una infilata di pensieri singoli su religione, etnia, sessualità il cui solo comune denominatore è la difesa della supposta maggioranza contro le minoranze di disturbo che rivendicano sempre di più. Il vero mondo al contrario è questo, non un libro best seller su Amazon.

Forse più che gridare al fascismo in senso storico, cioè ai vessilli busti e gingilli neri che tanta gente improbabile tiene in casa, conviene tendere le orecchie e sentire un’eco di fascismo proprio in questo pensiero unico, che condanna il diverso ed esalta il differente, sinonimo in questo senso di superiore. Sono i fascismi e i totalitarismi, neri e rossi, a creare e imporre i pensieri unici, non le democrazie in cui viviamo con sempre maggiore insofferenza. Non dimentichiamolo mai.

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